«Dove si è conosciuta la gioia per desiderarla così tanto?». La domanda di sant’Agostino è la stessa che echeggia dietro le “storie d’amore” (l’amore per ogni rinascita) che Giorgio Paolucci presenta nel suo Cento ripartenze. Quando la vita ricomincia (Itaca). Bozzetti di appena 1300 battute, «per ridare il giusto peso alle parole», come chiedeva Avvenire, quotidiano sul quale sono nati; camei che ricordano quanto l’uomo abbia dentro di sé «un inesausto desiderio di rialzarsi» (a patto che «il buio non abbia l’ultima parola» e ci sia sempre «un punto di luce a cui guardare»). Se è maledettamente vero che «non siamo infrangibili», che la fatica del vivere a volte è al limite del sopportabile, per l’autore è altrettanto vero che il riscatto è sempre dietro l’angolo, nascosto nella «generatività imprevista» di certe crisi, o nell’incontro con chi sa regalare «uno sguardo positivo sull’esistenza».
Paolucci scommette sul fatto che se si è attenti, «desti», tutto spinge a “ripartire”. Tutto. Dalla potenza rigeneratrice del perdono (quando Rembrandt dipinse Il ritorno del figliol prodigo era ormai al termine dei suoi giorni, quindi – suggerisce l’autore – «l’abbraccio misericordioso con cui il padre accoglie il figlio è immagine di quello che […] si prepara a ricevere»), fino ad una compagnia cristiana che ti accoglie a braccia spalancate (eloquente la pagina su Arjan Dodaj, il sedicenne arrivato su un barcone dall’Albania, che diventa arcivescovo di Tirana-Durazzo, «capitale di un Paese dove ogni fede era stata bandita»).
Nel “pieno di speranza” che il libro regala, colpisce la densità di “ripartenze” nate all’ombra delle carceri, luoghi dimenticati e misteriosi. Se è vero, come si dice nell’ambiente, che «ogni detenuto che comincia a studiare è una branda che si svuota», ecco Mattia, che si iscrive all’Università per non sentirsi più frenato dal peso dei suoi errori, e per far sì che il suo «tempo sospeso diventi un tempo fecondo». C’è poi il cardinale vietnamita, che anche se rinchiuso dal regime comunista per tredici lunghi anni, consacrando molliche di pane non ha mai smesso di celebrare (nessun controllo, però, ha potuto fermarlo: aveva scavato «una breccia anche nel cuore degli agenti di custodia», per giunta sostituiti continuamente per via delle loro scandalose richieste di battesimo). Quindi l’ennesimo riscatto, ancora dal sapore eucaristico: quel “progetto particole” partito dal carcere di Opera e poi esportato nelle galere di mezzo mondo («Lo stupore di sapere che quelle mani ferite dalla vita preparano le ostie che celebrano la vittoria di Cristo sulla morte»).
L’autore di Cento ripartenze non solo fa emergere qua e là anche le sue (ancorate a quella «mano di Dio sempre pronta ad afferrarmi»), ma forte delle dense e luminose vicende per anni raccontate, consiglia due condizioni per una rinascita esistenziale: «Intercettare i segni della Sua vicinanza», e «smetterla di inseguire una impossibile coerenza tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che si è». I versi di Leonard Cohen, ripresi nell’opera, raccontano liricamente entrambi i requisiti: «Dimentica la tua offerta perfetta. C’è una crepa in ogni cosa, è così che entra la luce». Con una trovata che lascia presagire novità, il libro non termina con l’ultima pagina, ma invita il lettore a condividere (scrivendo a centoripartenze@gmail.com) la sua speciale “ripartenza”, a raccontare quando e come nella sua vita è tornato a splendere il sole della Grazia.
Valerio Pece
(dal mensile TEMPI di febbraio 2023)